Del resto è ben noto che Bologna acquisì, fin dai primissimi secoli del II millennio, la duplice e correlata denominazione di dotta e grassa, proprio per la sua non comune capacità di assicurare, in virtù della forza produttiva delle campagne circostanti e della dinamicità dei suoi snodi commerciali, un costante approvvigionamento per le migliaia di studenti e docenti che ne animavano la vita comunitaria.
Cominceranno, così via via quelle cartine geografiche, che tutti ricordiamo, dove ogni campanile si segnalava per una propria attitudine alimentare e tutte insieme andavano a comporre il nuovo gusto dell'Italia borghese in formazione.
Fu, dunque, facile, all'interno di una simile esigenza generale, ritrovare a Bologna le antiche, sempre ribadite, abbondanze produttive del suo entroterra e farne una nuova esemplare codificazione in proposte gastronomiche, dove la tradizione culinaria veniva a patti con la sopraddetta esigenza di misura e ordine borghesi, ben agganciata a menù facilmente rapportabili ai sapori dei campi, degli orti, dei pollai, delle stalle del contado emiliano-romagnolo, ritrovando per tal via le ragioni per poter continuare ad essere "grassa" anche nelle mutate condizioni e ribadire antiche primazie.
Tagliatelle, lasagnette, tortellini, tortelloni, strichetti, costolette al prosciutto, fritto misto, umido incassato, baccalà e frittata alla bolognese, sfrappole, raviole, mistocchine, torta di riso, certosino, e altro ancora, secondo la documentazione raccolta dal Touring Club in una Guida gastronomica d'Italia, del 1931, per una sua lista di specialità a quel punto universalmente riconosciute come tali. Su tutto nella loro esemplarità le tagliatelle, in quanto davvero espressione di tale cucina emiliana affondata nelle radici agricolo-produttive.